Io sono la terra salata, e l’acqua che irriga gli orti.

Sono l’albero di fico e il pozzo in mezzo alla campagna; sono i recinti di fiori intorno alle case.

Sono il buganville viola e la Jacaranda.

Sono i ricordi dei miei nipoti e trovo me stessa e la mia ragione in tutti gli elementi da cui son composta.

Se ho smesso di chiedermi chi sono, è perché ho creduto di non essere abbastanza, quando invece ero tutto.

Ho lasciato che gli altri mi definissero, fino a non sapere più davvero il mio nome: Sardegna.

Max Leopold Wagner, etnologo e glottologo tedesco, nonché il maggior studioso di linguistica sarda, ci definiva fortemente timorosi del mare[1].

Grazia Deledda, in “Noi siamo Sardi”:

«[…]il regno ininterrotto del lentisco,

delle onde che ruscellano i graniti antichi,

della rosa canina,

del vento e dell’immensità del mare

[…] una terra antica di lunghi silenzi

di orizzonti ampi e puri, di piante fosche

di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta».

Vittorini dipingeva idealmente il profumo della nostra terra:

«Nell’aria ce n’è l’odore: del sole. Del fuoco puro, privo d’ogni acredine di combustibile. E di pietra secca. Ma di brughiera anche. E di spoglie di serpi. Odore di Sardegna»[2];

mentre De Andrè si riferiva a noi come a dei Pellerossa, descrivendo il nostro territorio come fuso insieme ai nostri caratteri:

«Sopra ogni cista da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli

Sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli

L’amore delle case, l’amore bianco vestito

Io non l’ho mai saputo e non l’ho mai tradito

Mio padre un falco, mia madre un pagliaio stanno sulla collina

I loro occhi senza fondo segnano la mia luna

Notte notte notte sola sola come il mio fuoco

Piega la testa sul mio cuore e spegnilo a poco a poco».

Durante un suo viaggio, David Herbert Lawrence, così apostrofava la nostra isola:

«La Sardegna è un’altra cosa: più ampia, molto più consueta, nient’affatto irregolare, ma che si perde in lontananza. Catene di colline simili alla brughiera, irrilevanti, che corrono via, forse verso un gruppetto di cime drammatiche a sud-ovest. Questo dà una sensazione di spazio che tanto manca in Italia. Incantevole spazio intorno a un individuo, e distanze da viaggiare, nulla di finito, niente di definitivo. È come la libertà stessa […]».

Noi, popolo sardo, ci siamo persi non appena abbiamo smesso di chiederci chi eravamo; nell’istante in cui abbiamo smesso di guardarci attorno, capaci come i pesci, di guardare solo altrove.

Quando ero bambina, mia nonna per riferirsi a luoghi distanti dalla Sardegna diceva “In continente!”, sprigionando con quella formula un sentimento di distanza infinita, un qualcosa di irraggiungibile e così lontano da non appartenerci.

A volte vorrei ritrovassimo parole con lo stesso significato, capaci di distinguerci e perché no, di allontanarci, per poterci ritrovare qui, nel luogo al quale apparteniamo, ma che mai ci è appartenuto.

Se noi sardi ci siamo persi dentro le nostre coste, tra i nostri boschi e le nostre pietre, solo tornando sui nostri passi, i primi, che percorsero l’inizio dei nostri viaggi, potremmo ritrovarci.

Ma noi sardi, chi siamo davvero?


[1] Max Leopold Wagner, La vita rustica, Giulio Paulis, a cura di, Ilisso, Nuoro, 1996.

[2] Elio Vittorini, Sardegna come un’infanzia, Bompiani, 1952.

 

2 pensiero su “Ma noi sardi, chi siamo davvero? di Stella Barbarossa”
  1. Si Stella Barbarossa iat fuedhau (e iscritu) in sardu iat cumenciau a cumprendi chini seus is Sardus fintzes ponendi chi donniunu de nosu (che a dónnia cristianu, no importat si po Gesugristu, o mancai ateista) est unu mundu de iscoberri.
    E si podit iscoberri fintzas chi is verus Sardus (e is falsus puru) non seus mai deunudotu verus.

    1. Il Signor Pudhu asserisce che la vera sardità sia quella di esprimersi nella lingua sarda e che questo sia sufficiente per far capire al mondo, e a noi stessi, chi siamo veramente? Niente di più sbagliato. Per capirci non è necessario usare una lingua o un idioma che tenderebbe ulteriormente a creare un distacco ed una confusione tra di noi. Come tra l’altro dimostra il Premio Nobel Grazia Deledda, che scrive tutti i suoi libri in italiano, per identificarsi in un popolo non è necessario rinchiudersi in una lingua conosciuta e parlata solo da una parte del popolo sardo, ma identificarsi in una tradizione che permetta la ricomparsa di un tratto che era scomparso molte generazioni fa e che discende come eredità dai nostri Avi.

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