Nel movimento più carismatico di tutti, scaturito da un’ondata di anti-politica senza paragoni, si affermerebbe un processo di selezione del leader squisitamente politico.

Se fosse vera anche solo metà delle chiacchiere che si fanno su Luigi Di Maio, e che lo danno lanciato come candidato premier del Movimento Cinque Stelle alle prossime elezioni, ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo della nostra vita democratica, a una sua maturazione. Nel movimento più carismatico di tutti, sorto come d’incanto intorno alla verve oratoria di un comico, nel pieno di un’ondata anti-politica senza paragoni in Europa, si affermerebbe infatti un processo di selezione e di formazione della classe dirigente squisitamente politico. E nel senso buono: basato cioè sulle competenze e sulla capacità di creare consenso, non sulla lotta tra correnti e i lunghi coltelli delle preferenze.

Di Maio ha l’aria di un bravo ragazzo, con i capelli più corti e gli occhi meno indemoniati di un Grillo o di un Casaleggio; eppure sembra al contempo capace di garantire anche l’elettorato tradizionale grillino, col sostegno del fondatore. Ma anche se a prevalere fosse un altro dei tre cavalli di razza del M5S, ci troveremmo ugualmente davanti a una svolta. P er chiunque di loro la promozione a leader e portabandiera sarebbe infatti un premio assegnato alla attività parlamentare: dunque un sigillo al processo di transizione da un movimento gravido di pulsioni anti-parlamentari, e perfino sfiorato da qualche tentazione extraparlamentare, a una forza politica certamente originale e anomala, ma pienamente inserita nel gioco della democrazia rappresentativa.

Non è cosa da poco, trattandosi di un polo che attrae tuttora un quarto degli elettori italiani, e che ha dimostrato nel tempo di non essere un fuoco di paglia, radicandosi in maniera perfino sorprendente nelle abitudini di voto degli italiani. Il che vuol dire che interpreta un’esigenza e riempie un vuoto non colmato anche nell’epoca di Renzi (e la leggina con cui i partiti si sono appena condonati i bilanci spiega bene di che natura sia). A livello del governo locale poi, dove non sono impacciati dal peso di proposte economiche ancora un po’ naïf, i grillini possono contare su una immagine di forza moralizzatrice, da guardian angels della cosa pubblica, che li rende elettoralmente competitivi anche a prescindere da Grillo (la ragione per cui non si vota subito a Roma, o in Sicilia, è proprio la concreta probabilità di vittoria dei Cinque Stelle).
Il Movimento ha insomma bisogno di compiere il salto di qualità di una leadership per così dire laica, e credibile. Ma non basta mettersi la cravatta e buttare le scie chimiche: perché funzioni questa operazione deve essere vera, sincera. Di Maio, o chi per lui verrà scelto per correre alle prossime elezioni, non può essere un puro prestanome, al quale è impedito in partenza di introdurre le necessarie innovazioni. La prima delle quali, condizione indispensabile per fare davvero politica, è la possibilità di stringere alleanze senza dannarsi l’anima, per strappare così risultati concreti. È questa infatti l’essenza stessa della democrazia parlamentare: nella quale uno vale uno, ma non vale niente finché non conquista una maggioranza.

Il corriere della sera, 11 settembre 2015

 

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